“Nonostante quello che abbiamo vissuto io e mia sorella siamo persone ottimiste, riusciamo a vedere il bicchiere mezzo pieno e ad apprezzare la vita, perché la vita è davvero bella e merita di essere vissuta”: chiude così la sua testimonianza Andra Bucci, con una frase che fa sciogliere la tensione di oltre un’ora di racconto in qualcosa che è più di un semplice applauso e diventa un abbraccio di ringraziamento per quel distillato tra memoria e dolore che ha voluto condividere con i molti, soprattutto giovani studenti, all’iniziativa “A scuola di memoria”, promossa dalla Provincia e dalla Prefettura di Massa-Carrara nella Sala della Resistenza del Palazzo Ducale di Massa in occasione del giorno della memoria.
Lei è stata la più piccola deportata italiana nei campi di sterminio, una bambina di quattro anni, Andra che con la sorella Tatiana Bucci, le chiamano le bambine dai capelli bianchi, ha ancora la forza di tornare a raccontare ai giovani delle scuole l’inferno di Auschwitz Birkenau.
Lo ha fatto per più di un’ora rispondendo anche alle domande degli studenti nel corso dell’incontro introdotto e coordinato dal giornalista Alberto Sacchetti, dopo i saluti del prefetto, Enrico Ricci, della consigliera provinciale Eleonora Petracci, in rappresentanza del presidente Lorenzetti, e del professor Alessandro Volpi, con un intervento che ha ricostruito gli aspetti storico culturali della Shoha.
Poi il racconto di Andra, fin da quella notte di fine marzo del 1944, quando lei, la sorella e il cuginetto Sergio vengono svegliate di notte dalla madre perché erano venuti i tedeschi e i fascisti, insieme al loro delatore, per prelevare gli ebrei di quella famiglia. “Ricordo la nonna in cucina in ginocchio che pregava uno di loro perché portassero via lei ma lasciassero i bambini. Da Fiume fummo portate alla Risiera di San Sabba e da lì dentro i carri bestiame arrivammo ai campi di sterminio il 4/4 del 44”.
Lì furono spogliate, disinfestate e tatuate, poi inserite nella zona delle donne, ma separate dalla madre. “La nostra fortuna, rispetto ai bambini che invece poi entrarono nelle camere a gas, fu che eravamo praticamente identiche e vestite allo stesso modo, per cui ci scambiarono per gemelle e fummo scelte da Mengele per essere sottoposte ad esperimenti. La mamma veniva a trovarci non tutte le sere e l’esercizio che ci faceva fare era quello di ricordarci il nostro nome, e ci è stato poi utile perché molti bambini avevano scordato il loro nome”.
Cosa ricorda una bambina di 4 anni di un campo di sterminio? “Il freddo, ho scoperto ora grazie ad internet che quel 4 aprile c’erano -12 gradi, i cadaveri nudi accatastati fuori perché nel deposito dove venivano ammassati per poi essere cremati non c’era più posto, gli odori, soprattutto quello della carne bruciata”.
Un altro episodio permette alle sorelle poi di salvarsi. Una delle sorveglianti aveva loro detto che se fosse stato loro chiesto chi voleva andare a vivere con le madri non avrebbero dovuto alzare la mano. Successe e nonostante lo avessero detto al cuginetto, questi alzò la mano. “Ricordo ancora il suo sorriso quando lo portarono via, ma non arrivò mai dalla mamma. Sapemmo poi dalla storia ricostruita molti anni dopo da un giornalista tedesco che Sergio con altri 9 bambini e 10 bambine furono portati ad Amburgo per essere sottoposti ad esperimenti sulla tubercolosi e ad altri. Lì furono uccisi nell’aprile del 45 e cremati. Ma il popolo tedesco sta facendo pace con il suo passato, quello italiano purtroppo non ancora. Ad Amburgo venti strade portano i nomi di quei bambini ed ogni anno, ad aprile, c’è una cerimonia che ricorda quello sterminio”.
Poi Andra torna a con il ricordo a Birkenau. “All’improvviso la mamma non torno più a trovarci: la credemmo morta (scoprimmo poi con gli anni che era stata trasferita per lavorare in una fabbrica di munizioni) e la cosa che ancora mi sorprende è che non ricordiamo di aver mai pianto”.
Sembra di vedere le immagini del racconto di Andra scorrere nella Sala: la liberazione del campo, il loro trasferimento a Wadowice, poi a Praga “in quello che ci sembrava un orfanotrofio”, poi in Inghilterra dove “finalmente torniamo a vivere come bambine”.
Nel frattempo i genitori, il padre cattolico, ma ateo, come spiega Andra, rientrato dalla prigionia di guerra, la madre, sopravvissuta, iniziano a cercarle seguendo il loro percorso, finché il padre scrive alla struttura che lio ospita. “Non credevano che fossero i nostri genitori perché avevamo detto che erano morti. Io non avevo mai conosciuto mio padre, ma mia madre tutte le sere mia madre ci faceva vedere la foto del giorno del loro matrimonio, e quella foto, spedita in Inghilterra, ci permise di riconoscerli e di tornare in Italia”.
Oggi Andra, che ha due figlie, vive negli Stai Uniti, ma torna sempre per alimentare la fiamma della memoria. La loro storia è diventata un cartone animato “la stella di Andra e Tati”, prodotto dalla Rai e presto divulgato anche nelle scuole.
Molte le domande degli studenti. “Perché lo fate?”. “Non possiamo dire per passare il testimone ai giovani – risponde Andra – ma per consegnarvi una memoria che vi consenta di potere alzarvi, se vedete qualcosa che non va, e di protestare. Oggi vediamo purtroppo pericolosi rigurgiti di quel passato, anche se non sarà possibile una nuova Shoah, quella memoria serve perché non prendano il sopravvento”.
“Perché non ha mai cancellato quel tatuaggio e cosa di allora le riaccende il dolore”. “Quello che più mi riaccende il ricordo e il dolore, ad esempio, è il rumore di un treno, ma non di tutti, solo di quelli merci, talvolta gli odori, come detto la carne bruciata, per cui non sopporto i barbecue.
Il tatuaggio del numero fa parte di me, quasi come se ci fossi nata, è sulla pelle – risponde Andra – ma pesa di più quello che si ha nell’anima. L’abbiamo lasciato perché è una testimonianza ma non mi fa dolore perché ho, abbiamo vinto”. Un ultimo applauso più intenso è il ringraziamento e l’abbraccio finale alla bambina dai capelli bianchi.
L’incontro si è chiuso con la consegna delle medaglie d’onore alla memoria di cinque deportati: Benedetto Bertelloni, Pietro Giannaccini, Carlo e Giorgio Pelliccia e Alcide Baldi.